1 febbraio 2012

Ad Anata va in scena la distruzione delle case e dei diritti umani dei palestinesi

Il 23 gennaio, nel cuore della notte, i bulldozer dell’esercito israeliano hanno demolito sette abitazioni nel villaggio palestinese di Anata, alla periferia di Gerusalemme, lasciando senza un tetto 52 persone, tra cui 29 bambini, la maggior parte dei quali di età inferiore agli 8 anni. Una di queste case è stata distrutta per la quinta volta…

Solo nel 2011, secondo i dati forniti dall’Agenzia dell’Onu per gli affari umanitari (OCHA), Israele ha provveduto a demolire 622 strutture abitative, spingendo oltre 1.100 palestinesi – più della metà dei quali bambini – nella terribile condizione di profughi. Questa politica, severamente condannata (ma solo a parole…) dalla comunità internazionale, si inquadra in un preciso piano di lenta ma inesorabile pulizia etnica, a danno soprattutto, come in questo caso, delle comunità beduine.

Non è peregrino ricordare che Israele, in quanto stato occupante, ha il dovere di proteggere la popolazione indigena sotto occupazione e di assicurarne il benessere e la dignità; chiaramente, la politica della demolizione delle abitazioni non solo è in aperto contrasto con tale dovere, ma tradisce in pieno ogni ideale umanitario. All’opposto di quanto accade, ai palestinesi andrebbe invece garantito il diritto fondamentale ad una corretta e non discriminatoria pianificazione urbanistica, che ne garantisca e ne soddisfi le necessità abitative connesse all’incremento della popolazione.

Nell’articolo che segue, scritto da Federica De Giorgi per
Medarabnews, l’autrice prende lo spunto dalle tristi vicende di Anata per ricordare l’attualità e la necessità di dare applicazione alle norme scolpite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per impedire il prevalere della forza e dell’arbitrio.

Ma oggi, purtroppo, la bandiera dei diritti umani viene agitata strumentalmente per giustificare interventi armati “umanitari” che poco o nulla hanno a che fare con nobili ragioni ideali, mentre altrove – e soprattutto qui in Palestina – si consente ad uno stato canaglia ed immorale di distruggere con i bulldozer, insieme alle case, anche i diritti fondamentali che spettano a ciascun essere umano.

RILEGGERE LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO ALLA LUCE DELLA RECENTE DISTRUZIONE DELLA COMUNITÀ PALESTINESE DI ANATA
di Federica De Giorgi - 30 gennaio 2012

Lo scorso 23 gennaio un gruppo di soldati israeliani ha demolito tre abitazioni nella zona est di Anata, villaggio della Cisgiordania centrale, sito nella zona nord di Gerusalemme. Nell’arco di poche ore, inoltre, ben cinquanta persone, fra cui 29 bambini, sono state sfrattate dai loro alloggi. Pochi giorni dopo, il 27 gennaio – una data che ha una qualche reminiscenza così drammatica da risultare quasi surreale – altre ruspe israeliane hanno continuato a demolire una serie di abitazioni nel medesimo villaggio.. Lo scopo del governo israeliano è molteplice: espellere i palestinesi residenti a Gerusalemme est, relegarli in piccole enclaves come già succede a Gaza e rafforzare il controllo di alcune zone di confine con l’area C, che si troveranno oltre il Muro, quali appunto il villaggio di Anata. Nonostante l’ONU abbia più volte chiesto al Governo israeliano di terminare questa politica di espropriazioni e demolizioni, tali pratiche erano e continuano ad essere molto diffuse. Solo nel 2011 ben 622 edifici palestinesi sono stati smantellati dalle autorità israeliane e 1.094 persone sono state sfrattate.

Il 28 gennaio scorso per l’ultima volta le Nazioni Unite hanno richiamato Israele a porre fine a questa politica di distruzione delle abitazioni palestinesi nella West Bank. Il sistematico incremento degli insediamenti non solo allontana sempre di più la possibilità di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, ma è considerato anche illegale da tutta la comunità internazionale.

In un rapporto privato redatto il 19 gennaio scorso dalla Rappresentanza europea in Israele si legge che il Paese “sta attivamente perpetuando le sue annessioni a Gerusalemme est”. Nel suddetto documento si fa anche riferimento alla serie di problematiche a cui è sottoposta la popolazione palestinese: “la divisione in zone limitate, le continue demolizioni e gli sfratti, una politica iniqua dell’istruzione, il difficile accesso alle cure sanitarie, l’inadeguata fornitura di risorse e di investimenti e il problema delle residenze precarie”, per citarne solo alcune.

Nonostante l’impellente necessità di agire, l’Unione Europea si limita soltanto ad evidenziare un problema, che affonda le sue radici nel lontano 1948: permettere la fondazione di uno Stato su base etnica e confessionale, ed erigerlo ad emblema di democrazia, è assai grave, soprattutto se dopo sessantaquattro anni, tale Stato commette crimini di pulizia etnica ai danni di un’altra popolazione.

Sempre nel 1948, pochi mesi dopo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” chiudeva un capitolo triste e doloroso della storia mondiale: poneva fine, anche simbolicamente, alle barbarie della Seconda guerra mondiale. A tutt’oggi, questo documento non è solo attuale, ma è soprattutto necessario.

Così sorge spontanea una domanda: oggi, dopo sessantaquattro anni, servirà forse una seconda “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”?

Basterebbe applicare quello che è già stato scritto, basterebbe avere la non piccola consapevolezza che il potere e le armi non equivalgono a diritti, ma che tutti noi, con senso di responsabilità, dovremmo denunciare le ingiustizie, non solo quelle che ci riguardano, ma anche quelle che avvengono dietro l’angolo, e via via, sempre più distanti da noi, fino ad avere un orizzonte più ampio, questo “considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. (cit. Primo preambolo della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.)

Federica De Giorgi è una studentessa di filologia classica all’Università di Roma Tre

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