1 aprile 2010

Israele sta perdendo la battaglia delle interpretazioni.

In questi ultimi tempi, nonostante l’assidua opera “educativa” della propaganda israeliana e il silenzio di gran parte dei media ufficiali sui crimini commessi quotidianamente da Israele, si fa sempre più strada una diversa percezione del conflitto israelo-palestinese, che vede riportati alla realtà i diversi ruoli dei due attori, i Palestinesi come popolo oppresso e vessato, gli Israeliani come spietato popolo di occupanti ed espropriatori di risorse.

Molti, in particolare, non credono più alla favola di Israele come “rifugio” per gli ebrei perseguitati nel mondo, ma lo vedono più realisticamente come una nazione di eterni colonizzatori, di violatori del diritto internazionale, di espropriatori di risorse, di brutali oppressori di una popolazione indifesa.

E, soprattutto, si fa strada sempre più l’idea che sia proprio Israele il maggior ostacolo al raggiungimento della pace in Medio Oriente, con la sua ostinata opera di giudaizzazione del territorio occupato di Gerusalemme est, con i suoi assassinii all’estero tipici di uno stato-canaglia, con i suoi continui raid e il massacro di povera gente inerme.

Ma anche i governi occidentali alleati di Israele sono ormai stanchi delle tattiche dilatorie israeliane, e sembrano non più disposti a tollerare il permanere dello status quo e lo stallo delle trattative tra Israeliani e Palestinesi, imputandone la colpa ai primi e chiedendo a Israele di compiere i passi necessari, per quanto “dolorosi” essi possano essere.

Di questo tratta l’articolo che segue, scritto il 25 marzo da Michael Young per il sito web del quotidiano libanese Daily Star e tradotto da Medarabnews.
25.3.2010

Alcuni affermeranno che l’espulsione di un diplomatico israeliano (a quanto si dice un agente del Mossad) dal Regno Unito, questa settimana, è un battibecco transitorio tra alleati, a seguito dell’uso di falsi passaporti britannici da parte di Israele nel recente assassinio di un dirigente di Hamas a Dubai. Dopotutto, si potrebbe aggiungere, il primo ministro Margaret Thatcher fece qualcosa di simile nel 1988, senza conseguenze durature. Eppure le cose sembrano piuttosto diverse, questa volta.

I funzionari israeliani devono prendere atto che l’interpretazione del loro conflitto con i palestinesi sta cambiando radicalmente al di fuori di Israele. A parte i dettagli, nel panorama complessivo un numero sempre maggiore di paesi vede Israele come ‘il problema’ – e non stiamo parlando qui dell’antipatia popolare che Israele sembra spesso provocare in Asia e in America Latina. Anche in regioni più amichevoli, come negli Stati Uniti e in Europa, la percezione che si sta consolidando è che l’irresponsabile piano israeliano di espansione degli insediamenti stia distruggendo tutte le prospettive di un accordo reciprocamente soddisfacente con i palestinesi, e che l’instabilità che ne deriva danneggerà tutti.

Nel polverone originato dalla visita del vicepresidente americano Joe Biden in Israele, due settimane fa, è stata prestata relativamente scarsa attenzione al suo importante discorso all’Università di Tel Aviv, dove una frase ha accuratamente riassunto il dilemma di Israele. “Non è un segreto che le realtà demografiche rendano sempre più difficile per Israele rimanere una patria ebraica e allo stesso tempo un paese democratico, in assenza di uno stato palestinese”, così Biden ha ammonito i suoi ospiti.

Con questa affermazione, il vicepresidente non faceva che riecheggiare un tema che gli stessi funzionari israeliani hanno da tempo riconosciuto. Se tutto rimarrà invariato, Israele continuerà a controllare una popolazione palestinese in crescita, i cui diritti – necessariamente, date le esigenze della sicurezza israeliana – Israele continuerà a violare in misura ancora maggiore di quanto non stia facendo oggi. Né questo risolverà nulla, perché la demografia fa il suo corso, fino a quando due popoli sono in lotta per un pezzo di terra – o cercano di concludere una pace impossibile.

L’unica alternativa per Israele è un’espulsione su vasta scala dei palestinesi, che screditerebbe completamente Israele agli occhi del mondo. In un certo senso gli israeliani stanno pagando questa scelta prima ancora che venga fatta. Né mai lo sarà. Israele semplicemente non ha alcuna opzione di espulsione. Forse può ridurre la popolazione araba di Gerusalemme; può momentaneamente isolare i palestinesi all’interno di alcune enclave in Cisgiordania e a Gaza; ma senza una soluzione politica, si tratta di mere misure tampone, odiose, che costano agli israeliani un prezzo politico sempre più gravoso da sostenere.

Ecco perché l’interpretazione si è modificata, e perché che oggi Israele si trova di fronte, per la prima volta, a delle critiche sul piano morale da parte degli alleati. Uno stato che ha sostenuto se stesso per decenni come una ‘creazione morale’, un rifugio per gli ebrei sofferenti del mondo, sta essenzialmente facendo in modo che l’unica prospettiva a lungo termine per israeliani e palestinesi sia la violenza. Malgrado il sostegno dichiarato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nei confronti di una soluzione a due stati, Israele non ha alcuno sbocco da proporre all’infuori del perpetuarsi di una rovinosa situazione di stallo. E siccome ha il controllo della terra, ricade su Israele l’onere di definire tale sbocco.

L’abilità di Israele di trascinare il processo negoziale a tempo indeterminato è stata notevolmente facilitata dall’incompetenza palestinese. L’Autorità Palestinese guidata da Mahmoud Abbas si sta sforzando di riprendere l’iniziativa tra i palestinesi, mentre Hamas, malgrado ottimistiche ipotesi che suggeriscono il contrario, non ha alcun interesse ad entrare in colloqui di pace con Israele. Eppure, il disastroso atteggiamento di Hamas che ha portato alla guerra di Gaza, oltre un anno fa, ha notevolmente indebolito la strategia militare del movimento, mentre i palestinesi oggi sono maggiormente disposti ad andare avanti con il progetto di costruzione dello Stato promosso dal primo ministro Salam Fayyad in Cisgiordania, se gli sarà permesso di giungere alla fine a qualche risultato.

L’Autorità Palestinese ha dovuto subire molte critiche, soprattutto da parte dei presunti sostenitori della causa palestinese. Ma l’approccio di Fayyad è l’unico progetto realistico che i palestinesi possano perseguire oggi – un progetto di consolidamento interno. Cosa ancora più importante, mentre il mondo guarda Abbas e Fayyad concentrarsi sulla riforma interna, vede anche Israele in una luce diversa. I palestinesi, per una volta, sono riusciti a modificare l’interpretazione del loro rapporto con Israele a proprio vantaggio.

Ecco perché il protratto scetticismo in merito alla portata della controversia tra Israele e gli Stati Uniti, o tra Israele e il Regno Unito, è irrilevante. Né gli americani né gli inglesi romperanno con Israele, né ora né mai. Tuttavia, non sono nemmeno disposti a continuare a tollerare la tesi di Israele secondo cui le sue politiche in Cisgiordania sarebbero giustificate dalla mancanza di un partner palestinese. Come ha affermato Biden nel suo intervento a Tel Aviv, “sinceri passi verso una soluzione a due Stati sono anche necessari per dar forza a coloro che vogliono vivere in pace e in sicurezza con Israele, e per indebolire i loro rivali, che non vorranno mai accettare questo futuro”.

In definitiva, i leader israeliani insisteranno di non aver alcun obbligo, eccetto che nei confronti del loro stesso popolo. Essi non terranno conto dell’intensificarsi della frustrazione nei confronti delle loro azioni, basandosi sull’assunto che la sicurezza di Israele è una questione israeliana. Ma come può esser vero ciò? Se l’Iran acquisirà armi nucleari, la sicurezza di Israele sarà più strettamente legata a quella degli Stati Uniti. Ogni eventuale ombrello nucleare regionale americano riguarderà anche Israele, a prescindere dall’arsenale nucleare israeliano. Quanto ai palestinesi, il loro problema non è mai stato così internazionalizzato – con le sue ripercussioni che vengono avvertite in innumerevoli capitali straniere. La questione dello stato palestinese potrà essere oggetto di dibattito presso le Nazioni Unite in un futuro non troppo lontano. La libertà di Israele di compiere passi unilaterali sta diminuendo perché le dinamiche mediorientali ora hanno un impatto in un numero molto elevato di paesi.

Un’ipotesi ancora più inquietante è che il termine per una qualsiasi soluzione al conflitto israelo-palestinese sia ormai scaduto da tempo, rendendo questa intera discussione inutile. In base a questa lettura, i palestinesi hanno il tempo dalla loro parte, in quanto essi costituiranno una maggioranza numerica nei confronti degli ebrei entro breve. Pertanto, tutto ciò che possiamo aspettarci è un’aperta ostilità armata, che ancora una volta durerà per generazioni. Questa potrebbe essere una valutazione troppo cupa. O forse potrebbe non esserlo.

Michael Young è un giornalista americano-libanese, residente a Beirut; oltre a scrivere abitualmente sul quotidiano libanese “Daily Star”, è coeditore della rivista americana “Reason”

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